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Quando il sole si spegne

  • Immagine del redattore: dott_antonio_piccinni
    dott_antonio_piccinni
  • 8 nov 2024
  • Tempo di lettura: 8 min

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20 febbraio, un anno iniziato da poco e con le più strane intenzioni. Arriva una telefonata, quella telefonata. È successa una cosa terribile, lacrime, voce cupa e interrotta, correte in ospedale, lei non c’è più. Qui comincia la tragedia, quella vera. I greci sapevano descriverla nel migliore dei modi e la realtà supera la fantasia di un racconto. Arrivo in ospedale e trovo la mia amica, la mia grande amica, con il capo appoggiato sulla spalla del fratello e il volto contrito dal dolore. Era successo da un paio d’ore. La figlia, soave bellezza di altri tempi, si era spenta all’improvviso per un problema polmonare. La vita della sua famiglia, degli amici e del compagno, in trenta minuti cambia. Bastano trenta minuti per stravolgere l’esistenza di così tante persone. Basta una vita stroncata dalla morte per far esplodere un dolore straziante in una intera comunità di affetti. Non sono molti gli eventi in cui soffriamo senza esserne coinvolti direttamente. Il Covid ci ha insegnato che siamo tutti più vicini alla morte, che siamo fragili di fronte alla paura e umani nel cercare di salvarci. L’angoscia di morteaccompagna il mondo inconscio di ciascuno di noi. Ma l’angoscia che si prova a perdere una persona, quella persona, è talmente forte e assurda da coinvolgere una comunità di anime connesse. Lasciare andare una ragazza di soli 21 anni nel fiore della vita ha qualcosa di banalmente illogico, tragicamente assurdo, religiosamente maledetto. Perchè scrivere un articolo sulla morte? Ho lavorato da giovane come educatore per poi diventare uno psicoterapeuta. Da molti anni lavoro con pazienti che hanno esperienza di contatto con la morte, o con la paura di quest’ultima. E tutte queste persone si portano dietro un bagaglio di dolore, disperazione, incredulità e solitudine. Nella nostra cultura si tende a relegare la morte dentro un cassetto chiuso con la chiave. Per questo scrivere della mia esperienza con la morte rappresenta un modo per invitarla ad uscire, imparare a trattarla con familiarità e intimità. Guardare la morte diventa l’occasione per guardarmi, vedere chi sono e quanto sono vicino alla vita. C’era una bellissima canzone che cantava “ho paura di vivere, perchè ho paura di morire”. Per questo il racconto diventa un modo per riportare alla luce l’antica visione buddhista del fare amicizia con la morte, per sentirsi liberi di fluire nel mondo. Ho vissuto già diverse morti durante il mio percorso, tra cui quella di mio padre quando avevo 22 anni. Conosco questa sofferenza, ricordo quando se ne andò. Per 10 minuti mi sono sentito fuori dal mio corpo. Dentro di esso c’era solo stordimento e incredulità. Il dolore, schiacciante e travolgente, è arrivato dopo. La disperazione si è accompagnata alla consapevolezza di un respiro che non c’era più, ad un cuore che aveva smesso di battere. Quando muore un genitore, il senso di fragilità e insicurezza che ci invade può essere molto acuto. È venuta meno quella immaginaria barriera protettiva dalla morte, che mi faceva sentire al sicuro. Eppure, nonostante avessi questa esperienza, stare a contatto con la morte è sempre stato faticoso. Parlo dello stare accanto, saper accompagnare una persona che vive un lutto, così drammatico come nel caso della mia amica.

Perdere un figlio è pura tragedia. Si sconvolge l’ordine naturale delle cose. È il sole che si spegne all’improvviso. Eppure assistere, essere accanto a lei, così prossima all’esperienza della perdita, si è rivelata un’esperienza intensa, intima e profondamente vivificante.

Come psicoterapeuta non c’è nessuna formazione che possa insegnarti fino in fondo a stare a contatto con la morte e il morire. Qualunque percorso professionalizzante non darà mai gli strumenti necessari per stare a contatto con il lutto, o con persone che si stanno avvicinando alla morte, senza che questi non siano accompagnati dall’esperienza umana del terapeuta. Il rischio che si inneschi la “sindrome del pronto soccorso emotivo” che ci porta ad utilizzare le strategie per aiutare l’altro, mantenendo una distanza dalla sua sofferenza, è sempre presente. Ma in questo caso l’altro era troppo prossimo a me stesso per creare quella distanza. Mi ha costretto a fare i conti con l’esserci come amico e come terapeuta nello stesso preciso istante. In quel momento mi sono chiesto cosa fare e come. Prendersi cura di qualcuno è un’espressione della nostra natura, della nostra umanità. L’eccesso di professionalizzazione a volte rappresenta per me una mistificazione di un intero processo elaborativo. Può farmi perdere il contatto con la generosità di cui siamo capaci, portandomi anche a dubitare delle mie risorse innate, di saggezza e amore. L’amore sotto forma di compassione e la compassione come espressione di condivisione umana. Essere accanto ad un fratello, una madre ed un padre, una famiglia intera a me molto cara, che ha appena perso una figlia, ha sfidato le mie convinzioni più salde. Ha superato i limiti del mio sentirmi inadeguato, mi ha messo difronte a delle incredibili incertezze. Ci sono stati momenti di grande agitazione, dove il dolore si mescolava al desiderio di essere di aiuto. Mi sono ritrovato a mettere in discussione le mie capacità e la motivazione a stare accanto a così tanto dolore. Sono stato costretto a interrogarmi sui miei attaccamenti, sulla paura dell’abbandono e la sensazione devastante di impotenza che si avverte a vivere questo tipo di eventi. Vedere la perdita così da vicino, amplificata da una gigante lente di ingrandimento, mi ha costretto a confrontarmi con la fragilità della mia vita e di quella dei miei cari. Un dolore che può straziare e allo stesso tempo spalancare il cuore. Ho dovuto decidere se rimanere chiuso nella mia corazza oppure concedermi un’opportunità. Nel momento in cui mi stavo ponendo la domanda, il mio cuore ha cominciato a battere più velocemente. E così si è aperto al di là della mia consapevolezza. Ero improvvisamente disponibile ad accogliere, ho scoperto che cosa poteva aiutarmi ad essere di aiuto. Per questo nella tragedia ho imparato.  Pronto ad accettare ogni cosa, senza respingere nulla. Il mondo della perdita non è fatto solo di dolore. Siamo fatti di emozioni e per questo veniamo attraversati da ingarbugliati e non chiari stati esistenziali che variano in mille sfumature. Mentre piangiamo possiamo sentire conforto e mentre ci disperiamo possiamo accogliere il sorriso per una cosa buffa. Ricordo, al funerale di mio padre, un amico che, senza volerlo, fece una battuta in un momento così drammatico. Mi fece davvero tanto ridere. Ricordo ancora quella risata piena e autentica esattamente come era autentico il mio cordoglio. Accogliere tutto il mio mondo emotivo, compreso la paura, mi ha fatto sentire la connessione con gli altri e mi ha dato la disponibilità a stare a contatto con la perdita. Come psicoterapeuta significa includere me stesso nell’equazione dell’intimità. Non posso stare accanto all’altro nella distanza, il solo calore professionale non aiuta, ho dovuto rifare i conti con la mia sofferenza per entrare in contatto con il dolore di un altro essere umano. Sentire la bellezza del condividere ha significato anche non fare assolutamente nulla di importante. Non andare alla ricerca della frase giusta da dire di fronte alla perdita, alla rabbia e soprattutto alla disperazione. Portare un bicchiere di acqua, occuparsi di farli mangiare, scegliere gli indumenti insieme a loro per dire addio alla loro figlia è stato più intimo e più forte delle tante parole giuste che avrei voluto cercare. Ho scoperto l’importanza di permettere alla persona che soffre di riposare. Riposare non rappresenta esclusivamente il dormire, per quanto sia fondamentale. Accompagnandoli in questa esperienza ho imparato che bisogna imparare a riposare in mezzo al caos fuori e dentro di noi. Per farlo ci sono stati momenti in cui ho respirato con loro. Portare l’attenzione al respiro, vivendo pienamente il presente, è un modo per stare nel riposo dalla sofferenza. Nei momenti di grande dolore e travolgimento gli ricordavo di fermarsi e respirare, oppure cercavo uno spazio insieme a loro dove poter fumare una sigaretta o mangiare cioccolato. Ho imparato che imparare a riposare nel pieno del dolore è fondamentale. Il luogo in cui farlo è sempre a disposizione, dobbiamo solo prestargli attenzione. Saper riconoscere questa dimensione spazio temporale dove non ci si ammala di sofferenza e dove sospendiamo la morte e il morire. Mantenere una mente aperta e ricettiva, nonostante il cuore addolorato, mi ha permesso di uscire dai panni dell’esperto. Molti, me compreso, si aspettavano la frase giusta, la soluzione più appropriata, il saper stare accanto alla tragedia. Mi sono sentito invece un principiante, privo di ogni sapere psicologico e perso nel comprendere cosa fare e come stare accanto. Dapprima questo status mi ha creato un senso di inadeguatezza, poi però ho colto le potenzialità del principiante. Nella sua mente ci sono molte possibilità, occasioni per sperimentare, in quelle dell’esperto molte meno. La sera, nel momento di maggiore intimità con le persone travolte, quando comincia il caos a ritrarsi in un silenzio più cauto e assordante, ero a casa con loro. Il fidanzato, ancora sotto shock, era nella camera della sua amata. Entro anche io in quella stanza, con il mio bagaglio di paura e desiderio di dire qualcosa. Eppure sentivo l’inutilità delle parole. Ognuna di esse avrebbe creato una distanza con lui e con quello che stava vivendo. Ho lasciato che la mia mente e il mio “non sapere“ mi guidassero attraverso nuovi occhi, liberi da obiettivi prestabiliti, aspettative o limiti. Ho contattato una grande intimità che mi ha permesso di abbracciarlo e stare con lui nel pianto. Non facendo nulla, solo un abbraccio. Ho sentito che avrebbe desiderato riposare nel letto che tante volte gli aveva ospitati come giovani amanti. L’ho accarezzato e aiutato a spogliarsi. Ho atteso, seduto accanto a lui, che si addormentasse. Non ho fatto nulla se non lasciare che quella situazione prendesse la sua naturale forma. Sentivo che il primo modo per offrire compassione è accogliere il corpo dell’altro nel contatto. Toccare è il modo più antico che abbiamo per guarire. Essere toccati è come mangiare o bere per un essere umano. Un bisogno fondamentale.  In certe circostanze la disponibilità a non sapere è la risorsa più preziosa, per vivere il presente come qualcosa di sempre nuovo e che ci connette agli altri. Sentire il bisogno di condividere il dolore, scriverlo e cercare le parole per raccontarlo è una prima grande forma di trasformazione. In questa fase bisogna concedersi il dolore. Dicono che il tempo guarisce le ferite. Ma il tempo può essere amico solo di chi presta attenzione a quello che sta vivendo, altrimenti guarisce a metà. Concedersi il dolore e la disperazione è bellissimo. Potrebbe sembrare folle, ma è quello che ho avvertito e mi ha permesso di essere ancora in piedi, di vivere e di dare un senso più umano e intenso alla vita. Solo accogliendo la stretta del dolore si allenta e può cominciare la trasformazione. Il dolore diventerà qualcosa di diverso, non scomparirà, resterà con noi per sempre, ma impareremo a decifrarne i messaggi di vitalità e pienezza. Accompagnare alla perdita di una persona cara, intraprendere l’itinerario del lutto di amici tanto vicini si sta rivelando una sfida impegnativa, che non terminerà con questo articolo e che durerà nel tempo. Ma mi incoraggia a non voltare le spalle alla morte e alla tristezza, perchè mi ha permesso di accedere alla gratitudine, alla gioia e all’affetto profondo che va oltre la perdita. E’ un grande insegnamento per me. I miei amici mi hanno dato la possibilità di sedere accanto a loro e questo è stato un dono. In fondo cos’è il dolore se non una forma persistente di amore. Tutti gli affetti, quelli di sempre e quelli più recenti, ma non meno grandi, si sono stretti in un unico grande abbraccio. Vederci nella sofferenza, stringerci, piangere insieme, e persino ridere, mi ha permesso di sentire quella magnifica presenza. Non so se essa si chiama Francesca, questo era il suo nome, oppure Amore. Quello che so è che va oltre la nascita e sopravvive alla morte.    

 
 
 

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