La sindrome della perpetua
- dott_antonio_piccinni
- 1 ott
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 2 ott

Il personaggio di Perpetua, come descritto da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi, è la fedele serva di Don Abbondio, il curato del paese, una donna di mezza età, energica e loquace, che spesso si lamenta delle difficoltà della vita e delle decisioni del suo padrone. Nonostante il suo carattere a volte brusco, è profondamente leale e devota a Don Abbondio. La sua figura rappresenta una tipologia di donna (e di uomo) che dedica la sua vita al servizio della Chiesa e del clero.
La parola “sindrome”, in medicina indica un insieme di sintomi e segni clinici che si manifestano contemporaneamente e caratterizzano una particolare condizione patologica, indipendentemente dalle cause che la producono. Chi di noi non è stato colpito da qualche sindrome nella propria vita?
Cos'è dunque quella che definisco “Sindrome della Perpetua”? Non esiste nella letteratura scientifica questa terminologia o classificazione diagnostica, ma come avrete capito dai miei articoli mi permetto di costruire una nosografia che ritengo a volte più facilmente comprensibile della letteratura accademica. In terapia accade spesso di incontrare delle pazienti (nella maggior parte dei casi si tratta di donne, per ragioni culturali e religiose, tuttavia, anche gli uomini possono essere coinvolti) che soffrono di questa sindrome. Spesso, chi la vive e si avvicina alla psicoterapia incontra numerose difficoltà nel compiere questo passo. Da un lato, prevale la convinzione che nessun aiuto possa davvero essere efficace per la propria situazione; questa sensazione di impotenza contribuisce a far sentire la persona isolata e senza possibilità di cambiamento. Dall’altro lato, esiste un legame familiare percepito come indissolubile, che rende ancora più complesso scegliere di intraprendere un percorso di supporto psicologico. L’idea di rompere, o anche solo mettere in discussione, questo legame genera sensi di colpa e timori, bloccando ulteriormente la possibilità di chiedere aiuto.
Un tratto distintivo delle persone che manifestano la “Sindrome della Perpetua” si riassume nella frase ricorrente: “Come possono vivere senza di me?”. Questo pensiero diventa una sorta di mantra che guida il loro agire quotidiano. La loro esistenza ruota attorno ad una dedizione costante e spesso totalizzante verso gli altri, in particolare verso i familiari. Si impegnano instancabilmente in mille attività, piccole e grandi, che hanno sempre come obiettivo il benessere altrui e raramente quello personale.
Accade frequentemente – ma non sempre – che le persone coinvolte siano single o senza figli. In questi casi, la loro missione di vita sembra essere unicamente quella di prendersi cura di qualcuno, quasi come se l’identità personale fosse definita esclusivamente dal servizio reso agli altri. Va sottolineato che, mentre nelle relazioni di coppia questa dinamica potrebbe essere confusa con una vera e propria dipendenza affettiva, nella Sindrome della Perpetua la situazione si presenta in modo più complesso. Qui la dipendenza non appare in maniera diretta o esplicita, ma è celata e giustificata da un contesto familiare che finisce per sacrificare una persona. Quest’ultima, sentendo come compito imprescindibile quello di mantenere l’equilibrio familiare – seppur spesso precario e poco funzionale – rinuncia alla possibilità di costruire una propria famiglia o di realizzare desideri personali, per paura di rompere una fragile armonia.
Uomini e donne che si immolano per aiutare nipoti, sorelle, fratelli, genitori, cugini, zii e zie ecc. per sentire di avere un ruolo essenziale nella famiglia ed evitare di fare i conti con un profondo senso di solitudine di cui la famiglia stessa ne è causa.
Questo comportamento si evidenzia soprattutto quando si superano i 40 anni e non si è costruita una propria famiglia (con l’accezione più ampia e liberale possibile che possiamo dare a questo istituto). Si introietta la sensazione di fallimento, soprattutto quando si pensa che dipenda da come si è fatti. Purtroppo, nel 90% dei casi queste persone rinunciano alla vita di coppia perché devono fare i conti con un vissuto che hanno ingerito molto presto nella propria vita, senza poter digerire, attraverso un senso critico, le figure genitoriali di appartenenza. “Solo noi possiamo amarti per come sei e lontana da qui non ce la farai” questa la frase che spesso mi riportano i pazienti con questa storia. Questa frase viene poi elaborata al contrario essendo troppo dolorosa e violenta. Per cui si trasforma in “solo io posso amarvi per come siete e se mi allontano da qui non ce la farete”, molto faticosa e opprimente, ma più sopportabile della paura profonda di essere abbandonati o di restare da soli. Come la Perpetua che si occupa del Sacerdote troppo impegnato per pulire la sacrestia (non si può pregare mentre si spolvera), chi soffre di questa sindrome pensa che gli altri abbiano sempre problemi più gravi dei propri. Per questo vivono nel sacrificio costante e faticano a costruire qualcosa fuori dal proprio nucleo familiare. Anche quando cercano autonomia, spesso cedono alle aspettative familiari esplicite o inconsce e tornano indietro. In molte famiglie, soprattutto quelle numerose, può emergere la figura del “figlio designato” – colui o colei che si assume il compito principale di prendersi cura dei genitori anziani o dei membri più fragili della famiglia. Un esempio emblematico è quello di una mia paziente particolarmente brillante, costretta a interrompere la propria vita all’estero per rientrare in Italia dopo che la madre si è fratturata il femore. Nonostante il valore umano indiscutibile dell’assistenza filiale, questa situazione solleva riflessioni importanti. Nel paese d’origine della donna vivono anche un fratello e una sorella, entrambi sposati e con figli, ma la responsabilità della cura sembra ricadere quasi interamente su di lei.
Questa dinamica si osserva più facilmente nelle famiglie con più figli rispetto a quelle con figli unici, semplicemente perché la suddivisione dei compiti è più evidente. Il rischio concreto è che uno solo venga identificato come punto di riferimento per la cura dei genitori o di altri familiari bisognosi, mentre gli altri mantengono ruoli più marginali. Tale assegnazione può comportare un notevole carico psicologico e pratico sul “figlio designato”, che spesso si trova a dover sacrificare ambizioni personali e opportunità di realizzazione per rispondere alle esigenze familiari.
Non sempre la psicoterapia ha lo scopo di far saltare questi equilibri perché in realtà salvano molti aspetti che altrimenti verrebbero vissuti come maggiormente disfunzionali. In molti casi, l’intervento terapeutico non mira a rompere o rivoluzionare completamente le dinamiche familiari e relazionali che si sono create nel tempo. Al contrario, la psicoterapia può aiutare a riconoscere il valore protettivo e rassicurante che certi equilibri, anche se faticosi, rappresentano per la persona coinvolta. Spesso, queste strutture relazionali costituiscono un’ancora di stabilità che consente di affrontare le difficoltà quotidiane, evitando che la persona si senta completamente smarrita o sopraffatta dal senso di vuoto e solitudine. Il compito del terapeuta, quindi, non è necessariamente quello di indurre la persona a rompere ogni legame o a cambiare radicalmente il proprio ruolo all’interno della famiglia.
Piuttosto, il percorso psicoterapeutico si concentra sull’aiutare la persona a comprendere meglio le dinamiche in cui è inserita, a riconoscere i propri bisogni e limiti, e a trovare un modo per prendersi cura di sé senza rinunciare del tutto al proprio senso di appartenenza e responsabilità verso gli altri.
In questo modo, la psicoterapia diventa uno spazio di riflessione e di crescita, volto a valorizzare ciò che di funzionale esiste già nella vita della persona, pur offrendo strumenti per affrontare le difficoltà e i sensi di colpa che spesso accompagnano la Sindrome della Perpetua. Solo attraverso una maggiore consapevolezza è possibile trovare un equilibrio più sostenibile tra il prendersi cura degli altri e il non annullare completamente se stessi.
È fondamentale aiutare le persone a rileggere le proprie dinamiche familiari e relazionali, andando oltre la semplice interpretazione come atti di amore o manifestazioni di solidarietà. Questi comportamenti, infatti, possono rappresentare anche l’espressione di meccanismi interiori che, in base all’intensità con cui si manifestano, possono assumere connotati più o meno patologici. Prendere coscienza di tale complessità permette di distinguere tra ciò che è un gesto di cura genuina e ciò che, invece, rischia di diventare un sacrificio eccessivo, spesso dannoso per il proprio benessere psicologico. Non esiste un’unica strada valida per tutti: non è necessario essere in coppia, avere figli, o sentirsi obbligati a creare una propria comunità a ogni costo. La libertà di scelta deve essere garantita a ciascuno, consentendo a ognuno di decidere in modo consapevole a cosa dedicare le proprie energie e quanto donarsi agli altri e alla vita stessa. Questo diritto alla scelta rappresenta un elemento centrale per il proprio equilibrio e la propria realizzazione personale.
È altrettanto importante sottolineare che chi si sente intrappolato in una vita percepita come immutabile, priva di stimoli o amore, non deve necessariamente attribuirsi tutta la responsabilità di tale situazione. Spesso, queste persone hanno interiorizzato un copione di vita faticoso, che è stato imposto loro fin da piccoli o che si è consolidato nel tempo in modo inconsapevole. Prendere atto che non sempre si è responsabili della propria insoddisfazione, ma che a volte si è stati costretti da dinamiche familiari o sociali, può rappresentare un primo passo verso la conquista di una maggiore libertà personale e di un’esistenza più appagante.

