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Pensieri di uno psicoterapeuta

  • Immagine del redattore: dott_antonio_piccinni
    dott_antonio_piccinni
  • 12 feb 2021
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 3 ott 2024





Cosa significa essere accanto ai pazienti ai tempi di Covid-19? Cosa ci si aspetta da un professionista del benessere psicologico in questo tempo sospeso e pieno di angosce? Come posso essere di aiuto a chi non conosco, che non ha mai affrontato un percorso psicoterapeutico e ha bisogno di aiuto cercandolo in una telefonata di emergenza o in una seduta on line? Queste e molte altre sono le domande che tutti i giorni io e i miei colleghi della relazione di aiuto ci poniamo e che solo faticosamente trovano una risposta. Proprio come il presente e il futuro del nostro paese e del mondo intero, anche la ricerca di risposte certe, chiare ed efficacii, da trasmettere ai nostri interlocutori, rimane sospesa in attesa di ritrovare una qualche forma di sicurezza nella funzionalità dell’intervento.


La psicologia negli ultimi 40 anni ha avuto grandi evoluzioni e anche una diffusione che solo alcuni decenni fa era impensabile. Tutti parlano, o sentono parlare, di psiche, emozioni e processi mentali: oggi però è la prima volta che la psicologia come scienza e trattamento terapeutico si trova ad affrontare una pandemia e come tutte le altre scienze umane (e non solo) cerca di comprende- re cosa fare e come per aiutare l'umanità ad affrontare questo periodo di stravol- gimento esistenziale.


Certo è che già in passato abbiamo studiato e affrontato situazioni di emergenza psicotraumatologica e da queste sono nati studi scientifici, trattamenti terapeutici, linee guida comportamentali. Ma non abbiamo ancora affrontato con altrettanta profondità esperenziale e tecnica una situazione che coinvolge tutti. Un trauma che è del paziente, di chi chiama al telefono per una emergenza psicologica, ma anche del terapeuta e dell’operatore che risponde alla telefo- nata. Come professionista mi chiedo come essere accanto alle persone che affrontano i problemi legati a Covid-19 e che io stesso vivo sulla mia pelle.

Rispondere alle angosce e alle paure degli altri mentre sto vivendo una situazione analoga è stato (e lo è ancora) una delle sfide più difficili da affrontare come terapeuta. Essere accanto a chi soffre mentre soffro, a chi ha paura mentre ho paura, a chi si angoscia per il futuro mentre mi angoscio per il futuro.

Nelle fantasie che a volte circondano il ruolo dello psicologo ci sono immagini di professionisti custodi di un sapere umano che riesce a trovare risposte per tutto. Naturale immaginare che alle persone serve pensare ai medici e a tutte le figure sanitarie come onnipotenti e in grado di risolvere il problema, qualsiasi esso sia. Dà un senso di controllo sugli eventi e sul dolore. Ci permette di avere fiducia e lasciare spazio alla speranza. E mentre scopriamo, soprattutto in questo periodo, che i professionisti della salute sono vulnerabili e non conoscono le risposte a ogni disfunzione organica o mentale, il mondo intero cerca di so- pravvivere a questo uragano planetario che sta spazzando via ogni certezza.


QUALCOSA NON VA

Ho deciso di partire da qui. Da questa grande assenza della «base sicura», della certezza che sfugge a ogni mio sapere di esperto della psiche. Per farlo ho ripreso contatto con quella parte ferita e spaventata di me che mi ha portato a chiedere aiuto alla psicoterapia come paziente prima e come terapeuta dopo. Questo mi ha permesso di mettermi in una posizione di ascolto e di osservazione di me stesso e degli altri. Ho deciso di non pensare a cosa fare o a come farlo.

All’inizio ho reagito leggendo qualsiasi cosa arrivasse sulla mia posta elettronica, sul cellulare, dai giornali, come un divoratore di aria nel cortile della mia prigione. Mi sono concentrato sul bisogno di sopravvivenza e di conseguenza sugli aspetti medico-sanitari del virus, dal come prevenire il contagio agli effetti della malattia e a come curarla.

In un secondo momento ho cominciato ad ascoltare i colleghi della salute mentale e provato a seguire io stesso il parere degli esperti che dicevano come affrontare il trauma e quali fossero i comportamenti da seguire per prevenirlo o elaborarlo in alcuni «step» da seguire giorno per giorno. Scritti e scritti su come svegliarsi al mattino, cosa mangiare a colazione, come mantenersi in forma, quanti passi fare in casa immaginando di stare al parco e quale tipo di meditazione praticare a seconda dell’inclinazione dei raggi solari o della quantità dei decreti che il governo emanava.

Ho cominciato così a sentire che qualcosa non andava. Dopo anni di psicoterapia mi ritrovavo a sentirmi inadatto ad affrontare questo periodo. Incapace di trovare le risorse per aiutarmi nello stare bene o nel pensiero dell’«andrà tutto bene». Ho sentito colleghi che dicevano di credere in questo periodo come a una bellissima opportunità per l’umanità di capire i veri valori e che il mondo sarebbe stato un posto migliore dove vivere. Sarà migliore? Una certezza che francamente ho scoperto di non avere. Questo mi ha fatto sentire sbagliato, incapace.

Come potevo pensare che una perso- na come me, che ha studiato per anni i comportamenti disfunzionali e le modalità di intervento su di essi, che ha sempre creduto nel potere delle emozioni e ha accompagnato tantissime persone in momenti dolorosi della loro vita, non fosse più sicura che il futuro ci riserverà bellissime sorprese?

Scoprirmi incapace di fare attività fisica tutti i giorni, di mangiare bene e poco, di non avere nessuna voglia di leggere o seguire quello che viene consigliato in questo momento difficile, mi ha fatto sentire una violenta frustrazione. In colpa rispetto al mio corpo e alla mia salute mentale, con la consapevolezza che non me ne stavo prendendo cura abbastanza. In conflitto tra il mio ruolo di psicoterapeuta, che ha scelto di aiutare gli altri, e il desiderio di starmene a casa al sicuro senza occuparmi di nessuno se non del- la mia famiglia affettiva. Arrabbiato per non avere scritto nulla, pubblicato nulla e condiviso nulla con la comunità scientifica a cui appartengo. Impaurito per il futuro economico incerto.


ACCOGLIERE IL DOLORE

Più leggo e ascolto quello che dicono tutti, diventati esperti di tutto, e più mi sento un «non esperto» e cado nel profondo dell’inadeguatezza e mentre contatto questa sensazione emerge ancora più rabbia che un po’ per volta si trasforma in tristezza e poi ecco comparire qualche sintomo depressivo alle porte.

Mi sono lasciato attraversare da questi sintomi, per fortuna il mio lavoro e anni di psicoterapia mi hanno permesso di non esserne troppo spaventato. Ho cominciato ad ascoltare la tristezza, ad accoglierla, a naturalizzarla senza dover necessariamente pensare che tutto andrà bene. Ho sentito che andava bene così. Che andava bene essere tristi, a volte arrabbiati, e non stare sempre attenti alla dieta.

E poi mi sono chiesto: come posso esservi accanto? Come riesco a rendere il mio intervento utile agli altri? Che cosa posso offrire alle persone che come me stanno attraversando un momento della vita così complesso? Finalmente accogliendo tutto il malessere potevo spostarmi da me agli altri senza dimenticare il mio dolore. Ho sentito che potevo utilizzarlo. Paura, rabbia e vergogna sono state sostituite dal desiderio di riuscire a condividerle, esprimerle senza timore di sentirmi giudicato. Questo mi ha permesso di contattare una speranza più profonda della convinzione che andrà tutto bene. La speranza di sentire che nella più fragile delle mie competenze c’era la sensazione che qualcosa poteva accadere, qualcosa stava cambiando.

Ho cominciato a combattere il bisogno di una certezza futura per contattare un presente fatto di me. Potevo finalmente concedermi di stare accanto alle persone con i limiti del momento, con l’assenza di risposte e la condivisione profonda di un sentimento comune. Il nutrimento poteva finalmente arrivare dal vuoto delle giornate e dal pieno dei vissuti. Essere accanto non significa più esserci per l’altro ma essere con l’altro.

I pazienti hanno sentito prima di me il bisogno di coinvolgermi nelle loro preoccupazioni, di chiedermi come stessi e come affrontassi il virus e la mia vita da recluso. Uno di loro alla fine di una seduta mi ha espresso la sua paura profonda di perdermi, di perdere il suo spazio terapeutico, e solo allora ho potuto tranquillizzarlo. Potevo continuare a esserci per lui e per me; questo mostro invisibile, come molti lo hanno definito, faceva paura anche a me ma lo avremo affrontato insieme.


ESSERE ACCANTO

L’empatia è uno strumento, un approccio o uno stato d’animo che tutti noi operatori del benessere psicologico dobbiamo attivare. Ci insegnano essere il presupposto di base per aiutare qualcuno ad affrontare i propri demoni interiori. Così potente che alcune scuole di psicoterapia hanno centrato tutto il loro metodo su di essa. In psicologia rappresenta la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, anche se non prevede sempre una partecipazione emotiva. Come praticare l’empatia se quella situazione invece ci riguarda da vicino? Tutto diventa più difficile, ma mi consente di attraversare nuove strade dell’aiuto. Forse alcune già battute e molte altre ancora da percorrere.

Essere accanto assume una forma diversa dal mio passato di psicoterapeuta. Una forma più complessa e a tratti interessante perché mi permette di sperimentare strumenti più vicini al «noi «e non solo all’«altro». Significa costruire un mondo nuovo che appartiene ai pazienti e di cui noi facciamo parte. Ci incamminiamo in questo nuovo percorso, ne sentiamo i limiti e le possibilità, le angosce e i desideri di un mondo diverso per se stessi e per gli altri.


Articolo pubblicato su "Mind - mente e cervello" N. 194, febbraio 2021

 
 
 

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